Tra moda e soft power: perché la cultura coreana ci piace così tanto

La cultura coreana ha “invaso” il mondo occidentale negli ultimi anni: a cosa dobbiamo questo successo? Perché il “Regno Eremita” ci piace così tanto?

Tra moda e soft power: perché la cultura coreana ci piace così tanto
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Dati alla mano, l'Italia non è una potenza globale: non è l'economia più avanzata del mondo o dell'Eurozona, non ha un budget enorme per l'esercito, non ha una popolazione in crescita. Eppure, il Bel Paese vanta un enorme soft power, una forma di potere diversa dall'hard power economico, militare e politico, basata sulla persistenza e sul riconoscimento di un'eredità storica e di una cultura ancestrale che permettono a Roma di influenzare la politica mondiale, o quantomeno di posizionarsi nello scenario internazionale come un player di livello molto più alto di quello teoricamente garantito dalle sue semplici risorse economiche.
Il soft power non è una prerogativa italiana, però: anche diversi altri Paesi vantano un'influenza sulla cultura, i valori e il pensiero di tutto il mondo. Tra questi, quello che si è più fortemente imposto negli ultimi anni è sicuramente la Corea del Sud: ma come è stato possibile un simile exploit culturale del Regno Eremita, dopo secoli di isolamento e di dominazione straniera?

Hallyu e soft power

Italia e Corea del Sud condividono un simile livello di soft power, ma le analogie tra i due Paesi finiscono qui. Se quello italiano è un potere storicamente stratificato, figlio di un'eredità che risale all'Impero Romano, il soft power sudcoreano è frutto di processi arbitrari, quasi politici, nati grossomodo negli ultimi trent'anni.

In tal senso, l'espansione a macchia d'olio della cultura e della moda di Seul nel resto del mondo ricorda più quella dell'American Way of Life nei Paesi del Blocco Sovietico nella seconda metà del secolo scorso che quella dei valori e della civiltà europea. La "coreanizzazione" del mondo occidentale è definita Hallyu, o "onda coreana": si tratta di un neologismo coniato a fine anni Novanta e inizialmente utilizzato per definire un CD musicale realizzato dal Ministero della Cultura e del Turismo di Seul per l'esportazione in Cina, in modo da favorire il consumo dei media coreani nel contesto cinese. Poco dopo, anche le serie TV sudcoreane trasmesse in Cina vennero chiamate Hallyu, e lo stesso nome venne assegnato al processo di esportazione culturale sudcoreana diretto verso il Giappone già a partire dal 2001.
Un termine coniato per ragioni essenzialmente politiche, volto a promuovere l'economia, il turismo e lo spettacolo nazionali in Cina e Giappone, dunque, è poi transitato nel linguaggio popolare globale, definendo un preciso processo di espansione di tutto ciò che sia ascrivibile alla cultura coreana dapprima in Asia e poi in occidente.

Fino alla metà dello scorso decennio, l'Hallyu è stato limitato al contesto asiatico, trovando successo dapprima in Cina, Giappone e Taiwan e poi nel sudest asiatico, dove hanno facilmente attecchito prodotti come le Serie TV coreane (ormai definite korean drama in tutto il mondo, per via dei comuni tratti narrativi e stilistici, che ne fanno quasi un genere a sé) e, soprattutto, la musica pop della Corea del Sud, detta anche K-pop.

Solo in un secondo momento, questa ondata culturale si è estesa agli Stati Uniti e, infine, all'Europa e al resto del mondo. La compenetrazione tra mondo coreano e mondo americano, d'altro canto, è profonda e radicata nel tempo, al punto che l'Hallyu, per il contesto statunitense, rappresenta oggi una sorta di rovescio del "colonialismo culturale" in Corea del Sud degli anni Cinquanta, quando gli USA hanno occupato la parte meridionale della penisola coreana durante la Guerra di Corea, importando nel regime filo-occidentale, liberal-democratico e capitalista del Paese il proprio modus vivendi. Insomma, pare che la "colonizzazione culturale" americana si sia ibridata a caratteri tipici della cultura coreana per creare un nuovo registro comunicativo e artistico incredibilmente magnetico tanto per il mondo orientale quanto per quello occidentale, che sembra persino travalicare le differenze politiche ed economiche tra Paesi (cosa che invece il modello americano non è mai riuscito a fare).

Ma perché la cultura coreana ci piace così tanto? Nel 2008, Aaron Han Joon Magnan-Park, oggi Professore di Letterature Comparate all'Università di Hong Kong, spiegava sulle pagine del Guardian che essa si presenta "esteticamente fresca, economicamente redditizia, culturalmente avvincente, tecnologicamente sofisticata e ideologicamente introspettiva". Tutti caratteri che sembrano piacere tanto al fruitore-tipo occidentale quanto a quello orientale. D'altro canto, il mondo coreano ha dalla sua un vantaggio pressoché unico al mondo.

Non è un caso che la Corea sia nota anche come "Regno Eremita": stiamo parlando infatti di una nazione che, almeno fino al XIX secolo inoltrato, ha fatto dell'omogeneità etnico-razziale, dell'isolamento economico dal resto del mondo e della preservazione dei propri caratteri culturali tradizionali una bandiera politica e una questione di sopravvivenza nazionale.
Insomma, quello coreano è una sorta di tesoretto culturale mai sfruttato appieno, aperto negli ultimi decenni proprio grazie alle contaminazioni provenienti da occidente e che riscuote enorme successo proprio per il suo carattere innovativo e per certi versi "esotico", imponendosi in un periodo in cui gli ultimi sviluppi della critica artistica occidentale ci hanno convinti che non ci sia più alcuna novità culturale all'orizzonte, che tutte le strade siano state percorse e che ora non resti che riutilizzare gli stessi topoi, gli stessi personaggi, le stesse storie, le stesse musiche e gli stessi colori.

Un successo culturale (ed economico) a tutto tondo

I grandi (e continui) successi della cultura coreana degli ultimi anni sono sotto gli occhi di tutti. Il più importante è sicuramente il gruppo K-pop dei Bangtan Sonyeondan, o BTS. I BTS sono un gruppo (una boy band, direbbe qualcuno) in attività dal 2013, ma che solo dopo il 2018 ha raggiunto una notorietà enorme su scala mondiale.

I dati ci danno un'idea del loro successo: nel 2020, quando ancora non erano all'apice della fama e nonostante la pandemia da Coronavirus, i BTS hanno venduto 674.000 copie dell'album Map of the Soul negli Stati Uniti: nello stesso anno, solo Taylor Swift ha raggiunto un risultato simile sul mercato americano. Negli ultimi quattro anni, il gruppo ha vinto ben 283 premi, contro 499 candidature in tutto il mondo.

Il loro contributo al PIL coreano è talmente alto che nel Paese si sono sviluppate aspre polemiche contro il servizio militare obbligatorio quando i membri più adulti del gruppo sono dovuti entrare obbligatoriamente in servizio di leva: solo la band, infatti, sviluppa ogni anno introiti per 3,6 miliardi di Dollari, con la possibilità che, nel giro della prossima decade essi arrivino a generare annualmente fino a 37 miliardi di Dollari. Il tutto senza considerare il loro contributo indiretto al settore turistico: si calcola infatti che il PIL delle città di Seul e Busan sia cresciuto di una cifra compresa tra lo 0,8% e l'1,6% per via dell'attrattiva turistica legata ai BTS.

Secondo le stime dello Hyundai Research Institute, infatti, il K-pop attirerebbe ogni anno 800.000 turisti in Corea del Sud, circa il 5% di tutto il turismo internazionale in ingresso nel Paese. Non solo: il successo dei BTS ha dato vita ad un brulicante mondo di artisti K-pop anche sulla scena internazionale, con gruppi tutti al femminile come le Blackpink o band più "rock", come gli ATEEZ (diventati un fenomeno in Italia per via della loro cover di "Volevo un gatto nero" dello Zecchino d'Oro).

Spostandoci su un piano completamente diverso, il successo colossale di Squid Game è un indicatore di come il korean drama e la serie TV coreana in generale abbiano un grandissimo seguito sul piccolo schermo. Squid Game ha generato introiti enormi per Netflix, che non a caso sta già pensando di rimpolpare la sua lineup di prodotti realizzati in Corea del Sud nel 2023. La serie è stata vista per 1,65 miliardi di ore solo nel primo mese di programmazione, contro le 625 milioni di ore di Bridgerton, che al momento dell'uscita di Squid Game si trovava al primo posto nelle chart di Netflix.

Squid Game

Parasite

Sul grande schermo, l'Oscar a Parasite di Bong Joon-Ho nel 2020 ha spalancato le porte di Hollywood ai film coreani, oltre che ai registi asiatici. Ciò ha portato a maggiori livelli di diversità nella produzione cinematografica internazionale, consacrando cineasti come lo stesso Bong Joon-Ho, Park Chan-Wook e Kim Ji-Woon nell'Olimpo della settima arte. Persino la messa in cantiere dei remake occidentali di Parasite e di Snowpiercer, anch'esso diretto da Bong Joon-Ho, dimostra come le storie e le idee coreane siano di successo, anche quando vengono "espiantate" dal loro contesto di nascita.

Solo nel mondo dei videogiochi sembra che le produzioni coreane fatichino ad affermarsi: in questo caso, però, la "colpa" la si può dare alla concorrenza dei vicini giapponesi e cinesi che, vuoi perché il Sol Levante è stato la patria del medium videoludico e vuoi perché la Cina è il Paese natale di colossi del calibro di Tencent, hanno monopolizzato la rappresentanza del continente asiatico nel settore videoludico. Benché più in sordina, però, l'Hallyu si è fatto sentire anche qui: tra le IP su cui Sony sta puntando per PlayStation 5 troviamo per esempio il JRPG Action Stellar Blade, ex-Project EVE, videogioco dello studio coreano SHIFT UP pubblicato direttamente da Sony. Certo, Stellar Eve non ha finora raccolto un consenso unanime da parte della critica, ma la presenza di un gioco originario della Corea del Sud in ben due State of Play diversi a distanza di un anno ci fa pensare che i grandi publisher, Sony in primis, stiano guardando al mondo coreano dei videogiochi con grande interesse.

Infine, non possiamo non sottolineare la rilevanza strategica ed economica delle Big Tech coreane su scala globale. Le due più grandi sono senza dubbio Samsung e LG, ma al terzo posto sul "podio" delle maggiori aziende del Paese per capitalizzazione di mercato troviamo anche SK Hynix, specializzata in memorie RAM e al sesto posto tra le più grandi produttrici di chip al mondo.
In campo tecnologico, però, è Samsung a fare la parte del leone per quanto riguarda la penetrazione coreana dei mercati esteri: accanto forse solo ad Apple e Google, il colosso di Suwon-Si è l'unica azienda al mondo a catalizzare l'attenzione del pubblico sui propri prodotti, siano essi smartphone, tablet o computer, e ad essere (quasi) universalmente apprezzata dagli utenti di tutto il pianeta.

Non è un caso che il lancio dei Samsung Galaxy S23 sia stato circondato da una pletora di rumor: fino ad oggi, i dispositivi della compagnia coreana sono stati gli unici a poter competere, sia a livello mediatico che in termini di vendite, con quelli del colosso di Cupertino. Non solo: Samsung è un'azienda "per tutte le stagioni", con una gamma di prodotti enorme. Tra televisori, frigoriferi, robot aspirapolvere, smartphone, laptop e monitor, ma anche singoli chip di memoria montati sotto la scocca di prodotti di altri marchi, è virtualmente impossibile che in casa vostra non ci sia alcun device che, del tutto o in parte, sia stato realizzato senza un passaggio per la compagnia sudcoreana.

Il kimchi come la pizza

Il settore in cui la penetrazione culturale coreana è più evidente oggi che mai è quello della cucina. Benché piatti come il Kimbap o il Bulgoghi non siano ancora noti al pari della pizza, del sushi o del kebab, la mania per ricette e ingredienti del Regno Eremita va avanti ormai da mesi.

A testimoniarlo sono, per esempio, le numerosissime ricette pubblicate sui principali siti web di cucina italiani e internazionali, ma anche la fama guadagnata da alcuni ingredienti tipici della cucina coreana: alzi la mano chi non sa cosa sia il Kimchi, per esempio. Per approfondire la questione, abbiamo avuto il privilegio di parlare con Ha Neul Ko, chef e ristoratore di Ginmi, un locale che si ritiene il "punto di riferimento della cucina tradizionale coreana a Milano". D'altro canto, proprio Ginmi è stato il primo ristorante coreano ad aprire a Milano, nonché uno dei primi in tutta Italia: aperto nel lontano 1985, il locale è stato di ispirazione per tutte le iniziative imprenditoriali sudcoreane nel Bel Paese, le quali hanno a loro volta raggiunto negli ultimi anni un successo enorme, testimoniato per esempio dall'inclusione del ristorante romano Gainn nella Guida Michelin.

Everyeye: Da alcuni anni a questa parte, la cultura e il modo di vivere coreani si sono fatti strada anche nel resto del mondo. Quali crede siano i fattori di successo culturale della Corea del Sud?

Ha Neul Ko: La Corea del Sud è un paese dove la comodità e l'efficienza vengono prima di tutto. Questo aspetto culturale ha portato di recente a tanti sviluppi tecnologici e di stili di vita, plasmando anche delle soluzioni che finora non esistevano. Lo sviluppo ha toccato vari campi, dal beauty all'intrattenimento fino alla tecnologia. La Corea del Sud è un Paese dove le innovazioni sono all'ordine del giorno e tutte le soluzioni progressivamente adottate ruotano attorno all'utente finale.

Everyeye: Avete riscontrato un aumento o dei cambiamenti nella clientela in parallelo al fenomeno di penetrazione culturale coreana in Italia?

Ha Neul Ko: Nel corso degli anni abbiamo avuto diversi clienti abituali nuovi. Di recente, abbiamo riscontrato che molti arrivano al ristorante già sapendo che cosa sono il soju e il kimchi, sia per sentito dire che perché i cibi e le bevande tradizionali vengono mostrati nei film e nelle serie televisive coreane. Pochi, invece, li hanno già provati dal vivo. In passato, almeno fino a fine anni Novanta, i clienti che mangiavano da noi erano persone che avevano già conosciuto la cultura della Corea del Sud toccandola con mano, che magari avevano viaggiato verso il Paese come turisti o che vi si recavano abitualmente per lavoro.

Everyeye: Quali sono i vostri piatti che più catalizzano l'interesse dei clienti? Quali quelli che suscitano le reazioni più positive? E quali, invece, quelli che pensa piacciano meno al pubblico?

Ha Neul Ko: I piatti che piacciono di può sono i piatti a base di carne, come il Bulgoghi [sottili fette di carne di manzo marinate e grigliate, spesso servite con un accompagnamento di riso o di verdure; ndr] e il Geik Bokkum [una versione particolare del Bulgoghi, che sostituisce la carne di manzo con quella di maiale e che usa una marinatura particolarmente piccante; ndr]. Il nostro Kimchi Bulgoghi, una combinazione di Bulgoghi, Geik Bokkum e Kimchi [condimento tradizionale coreano basato su verdure fermentate con zenzero, sale, aglio e altre spezie, insieme a peperoncino in polvere e salsa di pesce; ndr], è il piatto che i clienti amano di più. Seguono poi il Bibimbap, il "riso mischato" con carne, verdure e uovo, e il pollo fritto alla coreana, per il quale usiamo una versione leggermente rivisitata secondo una mia ricetta. Un piatto che piace meno, non tanto per sapore ma più per distanza culturale, sono invece gli spaghetti di grano saraceno freddi e piccanti: trovare dei cubetti di ghiaccio in un piatto non è molto comune per il pubblico italiano.

Everyeye: Crede che possano esserci motivi di incompatibilità o fattori che contribuiscono a mantenere distanti, sia nel settore del food che in quello culturale più in generale, il mondo italiano da quello coreano?

Ha Neul Ko: La cultura italiana e quella coreano sono entrambe due culture molto forti e bellissime. Proprio questa "forza" di base rende difficile, se non impossibile, mescolarle tra loro: si tratta di culture diverse e uniche.

Everyeye: Una penetrazione coreana in Italia c'è stata senza ombra di dubbio negli ultimi anni, ma vi sono ancora, secondo lei, degli aspetti del Regno Eremita che conosciamo poco o su cui abbiamo degli stereotipi sbagliati?

Ha Neul Ko: Quello che si vede nelle serie televisive e sui social media non è tutto. Bisogna ricordare che la Corea del Sud è un paese che ha avuto un enorme sviluppo economico in un periodo di tempo molto breve, quindi ci sono quartieri di Seul dove lo sviluppo urbanistico è ancora in divenire. Ci sono anche delle generazioni anziane che hanno vissuto la guerra di Corea e l'occupazione giapponese in prima persona, ma si tratta di aspetti che vengono messi poco in luce dai media. Il Paese ha anche dei problemi, che non possiamo dimenticare o ignorare: la disoccupazione tra i giovani e la pressione sociale imposta agli studenti sono due esempi chiari e piuttosto conosciuti.