Il vincitore del Premio Strega 2023 non è un romanzo. In Come d'aria di Ada d'Adamo, infatti, nulla è inventato. Non c'è nemmeno una trama da seguire. C'è solo una lettera scritta da una madre a una figlia. La figlia Daria, affetta dalla nascita a causa di una malformazione celebrale da una disabilità che la rende incapace di muoversi e parlare. La madre Ada, autrice del libro ed esperta di danza contemporanea, ha un tumore e sa di non avere molto tempo davanti a sé. Una storia, anzi una testimonianza, che ha saputo conquistare la giuria del più importante premio letterario italiano con 185 voti a favore. Una vittoria inattesa per un libro assolutamente anomalo rispetto al panorama editoriale attuale e che, anche solo per questo, merita attenzione.
Uno Strega insolito
La sera del 6 luglio al Ninfeo di Villa Giulia a Roma (sede che da settant'anni ospita la serata finale dello Strega) a ritirare il premio non c'era Ada d'Adamo, ma suo marito Alfredo Favi. La scrittrice non poteva esserci: è mancata a inizio aprile, pochi mesi dopo la pubblicazione del suo libro. Aveva 55 anni.
Una vittoria postuma, quindi, che in qualche modo fa da finale alla storia raccontata nel libro. Un finale, questo sì, da romanzo: l'underdog che, contro i pronostici, trionfa sui giganti dell'editoria. Sì, perché questa è una vittoria anomala anche per questo: negli ultimi decenni a conquistare lo Strega erano sempre stati romanzi pubblicati dai più grandi gruppi editoriali italiani. Come d'aria, invece è stato portato in libreria da Elliot, una casa editrice medio-piccola e relativamente giovane (è nata nel 2007) che fino a quest'anno non era mai riuscita nemmeno a portare un suo libro nella cinquina finalista.
Una storia vera e senza retorica
A permettere a questo piccolo libro di conquistarsi un posto prima nelle classifiche delle vendite e poi tra i finalisti dello Strega è stata l'indubbia potenza della sua scrittura. Asciutta e senza fronzoli, ma capace di aprire uno squarcio su quel «lato notturno della vita» che è l'esistenza dei malati, dei disabili, dei fragili. Una esistenza spesso isolata perché «il dolore allontana, la malattia spaventa» e dunque «avere un figlio invalido significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli». Eppure, d'Adamo riesce a trascinarci in questa vita isolata, difficile, inimmaginabile dall'esterno. Lo fa con un procedere più da diario che da biografia. Saltando continuamente da un piano cronologico a un altro. Raccontando - senza seguire un ordine preciso, ma lasciandosi trasportare dal flusso dei ricordi e delle riflessioni - la quotidianità fatta di accudimento totale di cui ha bisogno Daria, i frequenti ricoveri, gli ostacoli anche di natura burocratica che ci si ritrova ad affrontare, le nuove difficoltà portate dalla malattia di Ada, ma pure i momenti di tenerezza e di gioia.
Ma uno dei più grandi meriti del libro è che riesce a raccontarlo senza retorica. Ed è forse questo il miracolo di Come d'aria. L'autrice lo dice apertamente: «quando si parla di disabilità è quasi impossibile sottrarsi alla retorica». Eppure, lei ci riesce a evitare la retorica e con essa ogni enfasi ricattatoria o strappalacrime. D'Adamo sceglie la sobrietà e il pudore anche quando racconta le cose più tristi e dolorose. Una scelta stilistica che salva il libro da un certo - e discutibile - gusto per la spettacolarizzazione della sofferenza che accomuna tante narrazioni contemporanee.
Una storia di corpi
Il grande tema del libro è il corpo. Ada d'Adamo per buona parte della sua vita si è occupata di danza e quindi di un'arte che consiste nel controllo assoluto del corpo. L'invalidità totale di Daria è invece una assoluta mancanza di controllo: «Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola», scrive. E così il destino del genitore, nel suo compito di assistenza, è quello di supplire con il proprio corpo alle mancanze di quello del figlio, fino ad arrivare quasi a unire le proprie identità: «Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo [...] Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l'essere un po' disabile pure tu».
Non essendo possibile il linguaggio ordinario, il corpo diventa anche lo strumento attraverso cui madre e figlia possono comunicare: «Tutto passava attraverso il contatto: pelle da sfiorare, lacrime da asciugare, pancia da massaggiare, piedi da riscaldare, dita da rilassare, capelli da accarezzare... Il tuo corpo parlava, il mio corpo si sforzava di sentire quello che il tuo sforzava di dirgli». Il dramma che innesca la scrittura stessa del libro è la malattia della madre che rende il suo corpo non più in grado di quel tenace e totalizzante sforzo di accudimento: «L'incastro dei nostri corpi non è più possibile [...] Se volevo guarire tu non potevi più essere il mio centro, dovevo spostarmi, riposizionarmi altrove».
Il potere della letteratura
Ma un libro come questo è necessariamente anche una dichiarazione di fede nel potere della parola scritta e della letteratura. C'è un episodio che lo rivela esplicitamente. Nel raccontare la sua vita di malata di cancro (descritta come il subentrare di una nuova normalità «che ti devasta») a prevalere non è l'emotività, ma piuttosto l'apatia, il senso di vuoto e di distanza rispetto a tutto. «Te l'ho detto: ho il cuore di pietra. Sento che nulla mi tocca», scrive a un certo punto l'autrice.
A sciogliere questo cuore di pietra apparentemente inscalfibile è proprio la letteratura. Mentre si trova in ospedale Ada sceglie di leggere libri che raccontano di sofferenze simili alle sue. E quelle storie compiono il miracolo: «E finalmente riesco a piangere. Piango per Jude, piango per Juliette e per Ètienne: se non riesco a piangere per me, posso farlo per una vita come tante, o per vite che non sono la mia ma che a tratti le somigliano parecchio». Commuoversi per vite che non sono la propria significa riscoprirsi capaci di trovare un contatto con gli altri, anche nel mezzo della disperazione e della solitudine che la malattia implica: questo può essere il senso della letteratura. Sicuramente è il senso di un libro come questo.
Il vincitore del Premio Strega 2023 non è un romanzo. In Come d'aria di Ada d'Adamo, infatti, nulla è inventato. Non c'è nemmeno una trama da seguire. C'è solo una lettera scritta da una madre a una figlia. La figlia Daria, affetta dalla nascita a causa di una malformazione celebrale da una disabilità che la rende incapace di muoversi e parlare. La madre Ada, autrice del libro ed esperta di danza contemporanea, ha un tumore e sa di non avere molto tempo davanti a sé.
Una storia, anzi una testimonianza, che ha saputo conquistare la giuria del più importante premio letterario italiano con 185 voti a favore. Una vittoria inattesa per un libro assolutamente anomalo rispetto al panorama editoriale attuale e che, anche solo per questo, merita attenzione.
Uno Strega insolito
La sera del 6 luglio al Ninfeo di Villa Giulia a Roma (sede che da settant'anni ospita la serata finale dello Strega) a ritirare il premio non c'era Ada d'Adamo, ma suo marito Alfredo Favi. La scrittrice non poteva esserci: è mancata a inizio aprile, pochi mesi dopo la pubblicazione del suo libro. Aveva 55 anni.
Una vittoria postuma, quindi, che in qualche modo fa da finale alla storia raccontata nel libro. Un finale, questo sì, da romanzo: l'underdog che, contro i pronostici, trionfa sui giganti dell'editoria. Sì, perché questa è una vittoria anomala anche per questo: negli ultimi decenni a conquistare lo Strega erano sempre stati romanzi pubblicati dai più grandi gruppi editoriali italiani. Come d'aria, invece è stato portato in libreria da Elliot, una casa editrice medio-piccola e relativamente giovane (è nata nel 2007) che fino a quest'anno non era mai riuscita nemmeno a portare un suo libro nella cinquina finalista.
Una storia vera e senza retorica
A permettere a questo piccolo libro di conquistarsi un posto prima nelle classifiche delle vendite e poi tra i finalisti dello Strega è stata l'indubbia potenza della sua scrittura. Asciutta e senza fronzoli, ma capace di aprire uno squarcio su quel «lato notturno della vita» che è l'esistenza dei malati, dei disabili, dei fragili. Una esistenza spesso isolata perché «il dolore allontana, la malattia spaventa» e dunque «avere un figlio invalido significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli».
Eppure, d'Adamo riesce a trascinarci in questa vita isolata, difficile, inimmaginabile dall'esterno. Lo fa con un procedere più da diario che da biografia. Saltando continuamente da un piano cronologico a un altro. Raccontando - senza seguire un ordine preciso, ma lasciandosi trasportare dal flusso dei ricordi e delle riflessioni - la quotidianità fatta di accudimento totale di cui ha bisogno Daria, i frequenti ricoveri, gli ostacoli anche di natura burocratica che ci si ritrova ad affrontare, le nuove difficoltà portate dalla malattia di Ada, ma pure i momenti di tenerezza e di gioia.
Ma uno dei più grandi meriti del libro è che riesce a raccontarlo senza retorica. Ed è forse questo il miracolo di Come d'aria. L'autrice lo dice apertamente: «quando si parla di disabilità è quasi impossibile sottrarsi alla retorica». Eppure, lei ci riesce a evitare la retorica e con essa ogni enfasi ricattatoria o strappalacrime. D'Adamo sceglie la sobrietà e il pudore anche quando racconta le cose più tristi e dolorose. Una scelta stilistica che salva il libro da un certo - e discutibile - gusto per la spettacolarizzazione della sofferenza che accomuna tante narrazioni contemporanee.
Una storia di corpi
Il grande tema del libro è il corpo. Ada d'Adamo per buona parte della sua vita si è occupata di danza e quindi di un'arte che consiste nel controllo assoluto del corpo. L'invalidità totale di Daria è invece una assoluta mancanza di controllo: «Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola», scrive.
E così il destino del genitore, nel suo compito di assistenza, è quello di supplire con il proprio corpo alle mancanze di quello del figlio, fino ad arrivare quasi a unire le proprie identità: «Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo [...] Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l'essere un po' disabile pure tu».
Non essendo possibile il linguaggio ordinario, il corpo diventa anche lo strumento attraverso cui madre e figlia possono comunicare: «Tutto passava attraverso il contatto: pelle da sfiorare, lacrime da asciugare, pancia da massaggiare, piedi da riscaldare, dita da rilassare, capelli da accarezzare... Il tuo corpo parlava, il mio corpo si sforzava di sentire quello che il tuo sforzava di dirgli».
Il dramma che innesca la scrittura stessa del libro è la malattia della madre che rende il suo corpo non più in grado di quel tenace e totalizzante sforzo di accudimento: «L'incastro dei nostri corpi non è più possibile [...] Se volevo guarire tu non potevi più essere il mio centro, dovevo spostarmi, riposizionarmi altrove».
Il potere della letteratura
Ma un libro come questo è necessariamente anche una dichiarazione di fede nel potere della parola scritta e della letteratura. C'è un episodio che lo rivela esplicitamente. Nel raccontare la sua vita di malata di cancro (descritta come il subentrare di una nuova normalità «che ti devasta») a prevalere non è l'emotività, ma piuttosto l'apatia, il senso di vuoto e di distanza rispetto a tutto. «Te l'ho detto: ho il cuore di pietra. Sento che nulla mi tocca», scrive a un certo punto l'autrice.
A sciogliere questo cuore di pietra apparentemente inscalfibile è proprio la letteratura. Mentre si trova in ospedale Ada sceglie di leggere libri che raccontano di sofferenze simili alle sue. E quelle storie compiono il miracolo: «E finalmente riesco a piangere. Piango per Jude, piango per Juliette e per Ètienne: se non riesco a piangere per me, posso farlo per una vita come tante, o per vite che non sono la mia ma che a tratti le somigliano parecchio».
Commuoversi per vite che non sono la propria significa riscoprirsi capaci di trovare un contatto con gli altri, anche nel mezzo della disperazione e della solitudine che la malattia implica: questo può essere il senso della letteratura.
Sicuramente è il senso di un libro come questo.
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